Per gentile concessione di don Paolo Iannaccone pubblichiamo integralmente l’intervista a padre Arturo Sosa Abascalda, Preposito Generale della Compagnia di Gesù, da lui realizzata e pubblicata sul sito “Il Magiscopio

Siamo a Trieste, a due passi dal centro città, ospiti dell’ex Ospedale Militare, l’imponente struttura costruita nel 1863 ai tempi in cui il capoluogo giuliano faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico e che per oltre un secolo ha offerto cura e asilo a soldati di ogni dove. Ora, dopo la sua chiusura e un lungo e accurato restauro, è divenuto un campus universitario di nuova concezione destinato a quel popolo di studenti e docenti che affollano facoltà e istituti scientifici di primissimo piano in città, tanto da permettere che Trieste diventi la Capitale europea della Scienza 2020.

È in questa residenza universitaria che attendiamo l’arrivo di un ospite di riguardo, invitato dai gesuiti di Trieste in occasione del 60° anniversario del “Veritas”, Centro culturale nato nel 1958 come opera apostolica della Compagnia di Gesù su iniziativa di p. Aurelio Andreoli e tuttora luogo cittadino di fermento culturale tanto che nel 2009 la Regione l’ha riconosciuto «d’interesse regionale».

L’atteso ospite è padre Arturo Sosa Abascal, gesuita settantenne di origini sudamericane, nativo di Caracas, capitale del Venezuela; a diciott’anni, nel 1966, entrava nella Compagnia di Gesù e undici anni dopo, nel 1977, veniva consacrato sacerdote; dal 14 ottobre 2016 è conosciuto a livello mondiale, perché eletto Preposito Generale della Compagnia di Gesù, 30° successore di Ignazio di Loyola.

Padre Sosa arriva in anticipo e ci accoglie con la semplicità di un sorriso e un saluto in un italiano perfetto se non fosse per un gradevole inclinazione latinoamericana. Veniamo accompagnati nella sala dove potremo intervistarlo – come alla fine affermerà scherzando – su “de universa” dal momento che molti saranno gli argomenti con lui affrontati.

In mezzo a tanti impegni e in diverse parti del mondo, che cosa l’ha portata a decidere di venire a Trieste per questa ricorrenza del “Veritas”?
Un fraterno invito dei gesuiti della comunità di Trieste per il quale sono molto grato perché ho così l’opportunità di conoscere questa parte d’Italia nella quale mai avevo messo piede prima e capire tante cose perché, quando si è sul posto, si comincia non soltanto a “vedere” la realtà ma anche a farsi interrogativi su una storia così complessa che anche per me, come latino-americano, è così lontana solo da sentire; poter essere così vicino e poter sentire testimonianze di una storia così complessa, lunga e affascinante è dunque sempre qualcosa di interessante.

Una storia complessa e sofferta, lunga e affascinante quella di Trieste, porto di mare e città del Nord Est più multiculturale e multireligiosa. Potenzialmente una risorsa per questo tempo che stiamo vivendo incapace di mettere in dialogo le diversità.
Certo! Siamo diventati – come gesuiti, è anche la nostra esperienza, e pure come società – una società multiculturale. E questo diventa una sfida, non fermarsi lì e fare il passo della interculturalità, cioè non fermarsi alla sola capacità di condividere lo spazio o la città o il lavoro con diverse culture, ma vedere come arricchirci mutuamente, partendo da una visione critica della propria cultura, da un esserne consapevoli, e da un’apertura alle altre culture: io ho qualcosa da dare della mia cultura, ma ho tanto da ricevere dagli altri e questo ci arricchisce come umanità. Mi sembra che l’umanità che vogliamo rendere visibile sia l’umanità “diversa”: la diversità, l’essere così diversi va capito come una grande ricchezza e un grande dono.

«Purtroppo non è sempre così» ribattiamo a padre Sosa, che sorride annuendo. Anche se la sua esperienza lo porta a dire che accogliere la difformità anche solo nella Compagnia di Gesù è, sì, arduo e faticoso, ma ricco di novità, colori e sfumature.
In questa multiforme ricchezza delle diversità, che cosa significa guidare la Compagnia di Gesù?
È un servizio molto difficile, perché la Compagnia è molto estesa in tutto il mondo: come struttura sono 16.400 i gesuiti presenti in più di 100 paesi e in 83 Province, ma poi il numero dice poco perché sono tante le opere e le attività, così diverse in contesti culturali veramente molto variegati.
È un servizio difficile, ma pure facile, perché ogni gesuita in modo molto libero e creativo è responsabile di ciò che fa pur rimanendo in collegamento con la comunità e con tutta la Compagnia. Il governo della Compagnia accompagna i processi e cerca di portare avanti i grandi orientamenti della missione, che si concreta in ogni posto seguendo le necessità di quel posto. Quindi in modo molto differenziato da luogo a luogo e con tanti aiuti, perché la Compagnia ha un’organizzazione molto curiosa, nel senso che appare molto centralizzata anche se di fatto è molto decentralizzata: ci sono grandi orientamenti generali così come decisioni che si prendono a livello più locale; per fare questo il Generale ha moltissimi aiuti a livello locale e provinciale, a livello di consiglio del Padre Generale, gente capace che lo aiuta a svolgere la sua missione.

E una recente scelta della Compagnia è di aprirsi al laicato, coinvolgendolo in prima linea nelle opere.
Certo, per questo i numeri dicono poco, il numero dei gesuiti non dice la varietà delle opere portate avanti dalla Compagnia e che in tantissimi casi vede il gesuita solo come uno dei collaboratori. Se dovessi definire oggi la Compagnia, userei l’espressione di sant’Ignazio che è una “minima Compagnia collaboratrice”, cioè che collabora in diverse realtà. Per esempio posso dire che la Compagnia ha sotto la propria responsabilità quasi 200 università, ma in ognuna di esse saranno forse cinque, dieci i gesuiti; in un’università molto grande come la Gregoriana a Roma ce ne sono forse una settantina, ma il resto sono laici e laiche. Per esempio le reti educative molto grandi come quella dell’America Latina che si chiama “Fe y Alegria”: solo in Venezuela saranno in rete 200 scuole, ma nella struttura lavorano forse una decina di gesuiti, un numero irrisorio, perché il compito che ci diamo è di cercare di accompagnare i processi delle persone coinvolte nella medesima missione.

I gesuiti fanno un quarto voto che esprime lo specifico della Compagnia: una totale disponibilità a servire la Chiesa dovunque il Papa vi mandi. Che cosa significa essere a servizio del Vescovo di Roma quando egli proviene addirittura dalla medesima Congregazione?
Questa è una casualità mai pensata. Immagino nemmeno da lui. Certo, sant’Ignazio mai avrebbe immaginato un Papa gesuita. Mi domandi che cosa significhi essere a servizio di questo Papa gesuita; è lo stesso servizio che faremmo a qualsiasi altro Papa. La ragione di essere di questo quarto voto è che la Compagnia vuol essere veramente disponibile a rendere il servizio dove sia più necessario. E qual è il criterio per sapere dove è più necessario? Non è quello che noi vediamo, è quello che vede il Papa come la persona che nella Chiesa ha questa missione di avere cura dell’universalità della Chiesa; allora è lui che può dire “in questo momento è necessario dare una mano qua, una mano là, o avere un servizio specifico là”. Questo è il senso e un aiuto al nostro discernimento. Un esempio: ultimamente abbiamo avviato un processo – penso molto interessante – di discernimento in comune con tutta la Compagnia su quelle che noi chiamiamo le “preferenze apostoliche universali” e questo si farà nel corso di un intero anno, ma certo che nessuna decisione verrà presa fintanto che il Papa non avrà detto “sì” e da lui saremo inviati a fare ciò che è frutto di quel grande discernimento.

A proposito di discernimento, sant’Ignazio ha insegnato a voi e a tutta la Chiesa a usare il “discernimento” anche per disinnescare la carica distruttiva che c’è nel conflitto, e ad “agere contra”… Sono la modalità attraverso le quali anche Papa Francesco vive il suo ministero petrino in questo tempo così difficile e avverso?
Certo, penso che lui stesso vive l’agere contra perché l’agere contra si vive a tutti i livelli, a cominciare da quello più personale, che in primo luogo è un agere contra l’egoismo, contro il proprio criterio, perché ciò che il discernimento cerca in tutti i modi è la volontà di Dio e l’agere contra è fermare tutto ciò che ad essa si oppone. In primo luogo l’egoismo.
Poi l’agere contra è cercare di distinguere, di fare il “discernimento degli spiriti”, per esempio mi sembra che tutti riconoscano che Papa Francesco abbia ribadito la sinodalità della Chiesa: la grandissima sfida della sinodalità non è passare attraverso una missione monarchica, dove uno decide e gli altri accettano, o attraverso una struttura consultiva, parlamentare dove si discute e si decide per voto; no, la sinodalità è la Chiesa tutta insieme, è la Chiesa come popolo di Dio che va alla ricerca della volontà di Dio e la trova; il Papa dirige questo processo, ma non è un gioco di forza o di chi ha più intelligenza per convincere, no, è come tutti assieme ci mettiamo a cercare questa volontà di Dio. E la viviamo.

Questa è sicuramente una delle “novità” del ministero petrino di Papa Francesco che trova la sua espressione più lucida negli insegnamenti del Concilio Vaticano II, testimoni del superamento di una
visione piramidale della Chiesa. Secondo Lei c’è almeno un’altra novità altrettanto importante di Francesco Papa?
La chiamata permanente a guardare con gli occhi dei poveri, che sono gli occhi del Vangelo: questa penso sia una sottolineatura molto importante cioè, se noi vogliamo vedere Dio, dobbiamo guardare Gesù Cristo; se vogliamo vedere Gesù Cristo, dobbiamo guardare i poveri. Questo sguardo è quello che ci permette veramente di metterci in contatto diretto con il modo in cui Dio guarda questo mondo, e di comprendere come noi possiamo accompagnare i processi per avere un mondo più umano.

Torneremo su questo spunto, che è decisivo. Facciamo un passo indietro tornando alla sua vita. Lei è stato provinciale in Venezuela, terra non solo di periferia, ma anche una terra carica di tensioni, che ha vissuto e affrontato personalmente… Che cosa porta con sé di quell’esperienza?

Di quell’esperienza porto con me due insegnamenti molto grandi: il primo, che bisogna essere molto attenti a capire quello che ci capita attorno – e questo è un discorso complesso, perché non si possono applicare semplicemente ricette o formule per sapere come agire nelle situazioni che sono così diverse da contesto a contesto –; il secondo è la vicinanza alla gente che vive e soffre in quella determinata situazione.
Ecco, con queste due gambe si può andare avanti.

In una recente intervista, il sociologo milanese Aldo Bonomi ha affermato che “la cura contro il rischio di un’apocalisse culturale” – quella che p. Enzo Bianchi definisce “un imbarbarimento della società” – è “tornare a guardare ‘dal basso’ e ‘in basso’ i protagonisti dell’oggi: i poveri, gli ultimi, gli esclusi. In secondo luogo, serve una rivoluzione dello sguardo e del linguaggio. Dovrà essere sempre più il linguaggio della comunità, non il linguaggio delle élite, il linguaggio della cura, non quello dell’odio”. Si ritrova in questa affermazione?
Certo, mi ritrovo, nel senso che nessuna cultura è una cultura eterna, nessuna cultura è invariabile, ci sono i cambiamenti anche nel trascorrere del tempo e allora, quando una cultura è veramente chiusa, muore, cioè diventa secca, non è capace di offrire niente, si cuoce nella sua propria acqua; invece l’interculturalità permette sia di dare qualcosa agli altri (perché c’è qualcosa di prezioso in ogni cultura), sia di sentirsi vivi, cioè di poter cambiare nell’interrelazione.
Io penso che non sia vero che quando i poveri arrivano si impoverisce la società; è tutto il contrario: i poveri non sono poveri per volontà propria, non sono umanamente poveri, sono poveri perché ci sono delle strutture sociali che li rendono tali e che chiudono loro le porte a una vita più degna. Allora i poveri vengono a dare qualcosa!

Sono le “strutture di peccato” di cui nel 1987 parlava Giovanni Paolo II nell’enciclica “Sollicitudo Rei Socialis”…
Eh sì, certo, le “strutture di peccato” fanno i poveri, ma i poveri quando si muovono, quando emigrano nei vari paesi, danno ciò che sono come persone e cercano di avere uno spazio, una vita più umana. Questa integrazione è sempre una sfida, ma una sfida che arricchisce, che ci fa crescere come persone, come umanità e come società.

Un elemento che contraddistingue la nostra società e che trae per lo più origine dalla paura – paura dell’altro e di ogni diversità – è la violenza: una violenza sociale, ingiustificabile e che va condannata, ma della quale è necessario estirpare le radici. Radici che sono già in famiglia?
Posso raccontare un’esperienza personale. Prima di giungere a Roma, per dieci anni, dal 2004 al 2014 ho abitato nella zona di frontiera tra Venezuela e Colombia, zona caratterizzata dalla presenza della guerriglia colombiana e del narcotraffico, perché lì ci sono dei giacimenti petroliferi. È una frontiera molto lunga e molto poco custodita e questo fa sì che in quella zona ci sia molta violenza. All’Università volevamo fare una ricerca riguardo le cause di questa violenza e la nostra ipotesi era che veniva soprattutto dai conflitti sociali; invece, con grande sorpresa, abbiamo scoperto che la violenza nasce nelle case, all’interno della famiglia, e che i comportamenti violenti vengono imparati dai bambini perché è l’unico modo di sopravvivere all’interno della propria famiglia. Poi questi comportamenti diventano comportamenti sociali, perché fin da bambini imparano che per farsi posto nella società e per ottenere ciò che ognuno vuole bisogna essere violenti, altrimenti non ce la si fa.
Allora non basta fare accordi di pace o avere leggi pacifiche; è necessaria una convivenza che sia capace di rieducare questi comportamenti. Quindi la radice della violenza è molto profonda e bisogna fare veramente un lavoro di trasformazione interna per ottenere dei risultati a livello sociale.

Restiamo sul tema della violenza e dei grandi drammi da essa causati lo scorso secolo. In Italia si è sentito giustamente il bisogno di istituire la Giornata del Ricordo, il 10 febbraio, per far memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra; così come è stato istituito il Giorno della Memoria, il 27 gennaio, a commemorare le vittime dell’Olocausto; solamente poche settimane fa a Trieste sono state collocate le prime “pietre d’inciampo” delle mattonelle con incisi i nomi di 16 triestini deportati dai nazisti… tutti momenti importanti per ricordare e per fare memoria eppure crescono in modo esponenziale guerre, reazioni violente, intolleranza, terrore e terrorismo, razzismo e xenofobia… Come far sì che la memoria sia generativa?
La “memoria” non è solo “ricordo”: se ricordare la Shoah o le guerre diventa un modo di ricordare anche l’odio o la spinta della vendetta, allora non è “memoria”, ma un “ricordo” cattivo e un ricordo che porta a reagire anche violentemente contro la violenza che è stata subita da un gruppo o da una persona. La “memoria” è tutto il contrario, è ciò che non ci ferma e che ci spinge avanti; non è un ricordare per fermarsi a quel momento; è un ricordare come parte di un processo teso a superare quelle situazioni. Ciò vuol dire anche capire perché si sono verificate ed evitare i comportamenti che l’hanno prodotta.
Nel linguaggio cristiano la nostra “memoria” è l’Eucarestia, cioè nell’Eucarestia facciamo “memoria”: non facciamo memoria della croce come strumento di tortura, ma facciamo memoria della capacità così grande di amore che porta a dare la propria vita; è questa la memoria che bisogna veramente riscattare: ciò che dà senso è dare la propria vita, è l’amore; facciamo memoria non delle sofferenze che vengono, ma dell’amore, perché tu sei disposto a dare la vita.

Torniamo al tema della povertà. 8 uomini possiedono la stessa ricchezza (426 miliardi di dollari) di 3,6 miliardi di persone. In Italia nel 2016 l’1% degli italiani possedeva il 25% della ricchezza nazionale. Lo rivela il nuovo rapporto di Oxfam, diffuso alla vigilia del Forum economico mondiale di Davos 2018, che analizza quanto la forbice tra ricchi e poveri si stia estremizzando così come siano in crescita le disuguaglianze. Di che cosa abbiamo bisogno per dare una coraggiosa svolta?
Di vedere veramente con lo sguardo dei poveri. Molte volte abbiamo ripetuto che la vera statistica è l’altra, quella che una società dovrebbe fare la valutazione di sé stessa guardando come vivono i più poveri: soltanto quando i più poveri possono vivere come persone, come esseri umani, allora questa società si può dire che è arrivata ad un grado di sviluppo.
Mentre gli sviluppi misurati in termini di prodotto interno lordo, non dicono nulla delle persone, ma soltanto verità costruite in astratto. Bisogna guardare la vita dal “di là”, con lo sguardo dei poveri. È veramente una sfida scientifica. C’è il grande mito di pensare che la scienza sia neutrale; invece non lo è, la scienza ha uno sguardo, è impossibile non avere uno sguardo, ma non si riesce a riconoscere quale sguardo abbia…
Mi sembra che uno dei messaggi che noi come cristiani possiamo trarre dal Vangelo è proprio questo: se noi impariamo come ha fatto Dio per riscattare l’umanità e diciamo che questo processo, questo metodo è stato l’incarnazione… Ma quale incarnazione? L’incarnazione di Dio in Gesù non è in qualsiasi modo, Gesù si è incarnato in un piccolo villaggio di un piccolo popolo, povero tra i poveri. Allora questo è il modo attraverso il quale Dio ha cercato di farci guardare l’umanità, di farci capire qual è il processo tramite il quale noi possiamo veramente contribuire alla trasformazione del mondo.

Eppure fioriscono ordinanze antibivacco, dissuasori sulle panchine perché i poveri non possano distendersi, strumenti confiscati agli artisti di strada, daspo urbano ai parcheggiatori e ai mendicanti… Sono solo alcuni dei provvedimenti che, qui come in altri luoghi, sono stati emanati per ripulire i salotti delle nostre città. Con il rischio di fare la guerra ai poveri piuttosto che alla povertà…
È così, perché bisogna appunto guardare “dall’altra parte”. Nessun povero mi sembra che scelga di dormire sulla panchina, lo fa perché non ha nessun’altra possibilità, e allora come fare non soltanto per cacciarlo via e lasciare la panchina libera per quelli che vogliono passeggiare nel giardino, come fare affinché non ci siano persone con il bisogno di dormire sulla panchina? Questo vuol dire veramente avere la sensibilità, da una parte, e dopo anche le strutture per farlo e cioè, quando si fa un preventivo, tener conto non soltanto che bisogna mettere il combustibile per il riscaldamento della tua casa, ma anche che c’è bisogno di usare alcune risorse, quelle necessarie per dare la vita agli altri.

Ecco tra l’altro questo apre un altro spiraglio, un altro campo minato, è quello che Papa Francesco ha affrontato nell’Enciclica “Laudato Si’”, ovvero la cultura della sostenibilità.
Questo è uno dei grandi paradossi della nostra umanità: il secolo dove siamo più cresciuti nella capacità umana di comprendere e di conoscere, è il secolo dove abbiamo più ferito la natura. Sembra che non ci rendiamo conto, che non siamo capaci prima di riconoscere, perché c’è ancora una discussione sul tema: tanti, anche scienziati, non riconoscono che ci sia stato e che ancora si stia facendo un danno profondo, una ferita al pianeta terra; poi meno ancora sono i passi per evitarlo.

Lei si è formato negli anni della teologia della liberazione. Rispetto a quanto vissuto in modo drammatico negli anni ’70 con lo scontro di classe e la lotta armata, che cosa resta di sano in questo modo di fare teologia? È ancora utile per l’oggi?
Certo, io penso – almeno io, con gran parte della Chiesa latino-americana – che non è passata la teologia della liberazione, perché è questa la teologia! E lo sento dire in diversi modi; anche quando oggi Papa Francesco sfida la Chiesa ad “andare avanti” la teologia, cioè a ripensare teologicamente il mondo odierno, è una eco di questo. Cioè la teologia della liberazione prende in positivo quanto il Vangelo ci propone e che è sempre lo sforzo di accompagnare processi di liberazione, che in questo mondo attuale sono processi di riconciliazione con la natura, di riconciliazione di pace, ecc. È questa la teologia della liberazione: anche quando parliamo di guardare con gli occhi dei poveri, parliamo di una teologia della liberazione così legata e vincolata al Vangelo, che non è che una tappa temporale, cioè un avere riscoperto qual è il luogo teologico proprio del cristiano.

Dopo la laurea in filosofia lei ha ottenuto il dottorato in scienze politiche, titolo che l’ha portata a insegnare all’università e a pubblicare alcuni studi sulla politica e sulla storia del suo paese. È divenuto così uno studioso dei movimenti socio-politici. Che cosa l’ha colpita nei tre discorsi che il Papa ha fatto ai Movimenti popolari, che sono molto presenti in America Latina?
Un’intuizione forte della Chiesa latino-americana mi sembra sia ribadire che il soggetto della società e della Chiesa è il popolo, intuizione presente anche nel Concilio Vaticano II. Cioè che la vera democrazia non dipende da una struttura legale, non dipende da una bella costituzione, ma dipende dal fatto che il popolo sia veramente organizzato, che possa parlare ed essere sentito dalle strutture di governo. Quando si parla di un popolo che partecipa al governo significa che quel popolo è diventato cittadino, organizzato per cercare il bene comune e non è soltanto una parzialità, è appunto un estremo polare: permette di pensare sul serio al bene comune – al bene comune di una società, al bene comune con uno sguardo più ecologico, al bene comune mondiale.

È forse proprio questo il punto di svolta, lo snodo anche per una politica rinnovata, che si occupi veramente della città, della polis…
Ma della polis mondiale, vorrei sottolineare questo, perché oggi è impossibile pensare al mondo a partire da una parzialità geografica, non è possibile che l’Europa abbia una vita tranquilla e in pace se il resto del mondo è in guerra. Non è vero che questa interconnettività è così profonda: se non pensiamo al bene comune in termini di bene comune mondiale, non cerchiamo veramente la vera pace, il vero sviluppo.
Mi sembra che, un’altra volta, la Chiesa cattolica abbia un vantaggio, perché questo vuol dire “cattolico”: “universale”. Purtroppo “cattolico” è diventato il nome di una setta, ma non è così; questo è l’altro estremo dell’incarnazione di Gesù: lui si è incarnato in un posto piccolo, sottomesso all’impero romano, ecc., ma lui è universale. Questa tensione è importante per ogni essere umano e ancor più per quelli che hanno responsabilità di governo; cioè, se tu non sei capace di pensare al tuo contesto presente anche in tensione col bene comune mondiale, non c’è niente da fare!

Lei ha affermato recentemente che “la formazione politica è il vaccino contro il fondamentalismo derivato dalle ideologie e dagli atteggiamenti anti-politici”…
Perché “fondamentalismo” e “ideologia” sono il contrario della politica, cioè è avere o cercare di avere la sicurezza. Il dogma è un’idea, una pietra che hai scolpito e difendi senza guardare nessuno e senza pensare di più; invece la politica è proprio il contrario: essa è possibile quando si guarda la realtà e se è relazione con altri, con i quali ci si mette alla ricerca del bene comune, di un bene per tutti. Per questo fondamentalismo e politica sono incompatibili.

Dall’ultima vostra Congregazione Generale, svoltasi a fine 2016, è emerso che la Compagnia di Gesù è inviata “a promuovere ovunque una più generosa cultura dell’ospitalità”. Come affrontare la paura di accettare le diversità di razza, di genere, di cultura, di classe sociale o religione e dare spazio a questa virtù dell’ospitalità?
Guardando gli occhi della persona. Noi non siamo capaci di riconoscere chi non guardiamo in faccia; allora, quando guardiamo in faccia, cambia completamente il modo di relazionarsi. Quando io penso all’altro come ad una categoria, l’altro è il “diverso” in qualsiasi modo per razza, per religione, per luogo di origine e non esiste come persona; invece, quando io guardo in faccia questa persona, posso anche innamorarmi.

Il Centro “Astalli” di Roma è per voi una punta di diamante in tema di accoglienza sul fronte dei rifugiati. Emergono esperienze molto positive d’integrazione…
Certo, il Centro “Astalli” ha delle esperienze molto belle, ma è solo parte di un’immensa rete di gruppi che accolgono i rifugiati, ribadiscono la loro umanità, cercano di accompagnare i processi di integrazione. Qui in Italia l’esperienza è molto bella, ma lo è anche in Siria, lo è anche in Brasile e in tanti posti dell’Africa, dell’Afghanistan,… È una rete che cerca veramente di agire e fare insieme senza guardare altro se non gli esseri umani e quelli che hanno necessità.

Un’altra buona pratica sempre in tema di rifugiati sono i “corridoi umanitari”… che sta prendendo sempre più piede.
Sì, ma io vorrei accennare ad un’esperienza che forse non è tanto conosciuta, il lavoro che si fa di educazione nei campi dei rifugiati. Abbiamo cominciato a fare questo già da qualche anno ed è un’esperienza molto bella offrire ai rifugiati ospiti nei campi la possibilità di avere un’educazione formale, anche universitaria. Mi colpisce molto la cifra fornita dal Servizio di aiuto ai rifugiati: il tempo medio di permanenza in un campo dei rifugiati è di 17 anni! Immaginiamo un ragazzo che arriva in un campo a otto, nove o dieci anni, vuol dire che lui starà lì tutto il tempo che un ragazzo normale impiega nel formarsi a scuola.
Quindi, se non offriamo ai tantissimi giovani che arrivano – perché ai campi dei rifugiati arrivano soprattutto donne, figli (bambini più o meno piccoli) e anziani – la possibilità di sviluppare le loro tappe di vita, se non diamo ai giovani la possibilità di aprirsi al mondo dell’educazione e se non ci prendiamo cura dei vecchi, allora non facciamo vero servizio di accompagnamento umano a queste persone.
Su questo veramente possiamo dire che abbiamo un’esperienza molto bella anche a livello universitario, i cui studi si fanno in diversi modi e pure on-line, con l’appoggio di tante università nel mondo, per aiutare ad avere un futuro con un po’ di più formazione e sostegno anche culturale.

Nell’ultima vostra Congregazione Generale è emersa anche l’importanza di “formare uomini e donne impegnati e capaci di promuovere la riconciliazione”.
Diciamo che abbiamo riformulato la missione “fede e giustizia” col termine “riconciliazione”. Prima della Congregazione si fanno normalmente quelle che noi chiamiamo le Congregazioni provinciali; ogni Provincia si è riunita e il padre ha fatto una domanda: “Quali sono le chiamate che voi sentite oggi nel mondo?”. Il 90% delle risposte erano nella direzione della riconciliazione, cioè l’esperienza di abitare nelle società ferite e l’importanza di collaborare nel guarire queste ferite. Questo ci ha colpito tanto perché lì si gioca la fede e anche la lotta per la giustizia.

In questi tempi si sta parlando di diaconato femminile. Ma la questione della donna supera l’aspetto sacramentale per arrivare a dire il suo ruolo nella vita della Chiesa. Forse la Chiesa ci sta arrivando un po’ tardi…
Non so se la Chiesa stia arrivando più tardi della società, perché il problema del ruolo della donna non è esclusivo della Chiesa ed è ben più complesso. L’esperienza che abbiamo dall’America Latina ci porta a dire che non si può pensare alla Chiesa senza le donne, cioè un’altra volta, il criterio per misurare non è quante donne siano preti o quante vescovi, il criterio è quante donne facciano comunità ecclesiale, quante veramente tramandino la fede da una generazione all’altra, quante abbiano una profondità di vita spirituale che è veramente sostegno della comunità ecclesiale.
La Chiesa senza le donne non esisterebbe, allora bisogna, certo, ripensare ai ministeri nella Chiesa, al modo di organizzarli e di riconoscerli.
Ciò va di pari passo con la società, perché neanche la società ha questa uguaglianza. Sono stato stupito in questi giorni di aver letto che, per esempio, in Italia il salario della donna non è ancora il medesimo salario degli uomini. Ma come, in una società industriale dove ci sono delle normative, che riguardano il lavoro, molto sviluppate, ancora non si è arrivati alla parificazione?
Non è solo questione della Chiesa, è un problema dell’umanità il riconoscere il ruolo della donna e nel dare vita a quello che siamo.

Un’ultima domanda: nella vostra Congregazione del 2016 è emerso quanto bisogno ci sia «di portare un messaggio di speranza». A fronte delle “speranze” molto frammentate e limitate che ci dà il mondo, ci doni un’ultima parola per aprirci a una speranza durevole e non ingannevole.
Sembra che la più grande fonte di speranza sia l’esperienza di Gesù, che è capace di dare la vita per amore. Nella misura in cui ci sono persone capaci di dare la vita perché altri abbiamo vita, in quella misura c’è speranza.

La ringraziamo per la sua presenza e per il tempo che ci ha donato.
Grazie a voi e grazie per questa bella visita a Trieste.

A cura di don Paolo Iannaccone

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