Spesso si afferma che tanti nostri ragazzi sono diventati insensibili alla violenza perché passano troppo tempo su videogiochi violenti; e del pari il troppo tempo speso con i videogiochi sarebbe la causa dei sempre più frequenti e preoccupanti fenomeni di isolamento giovanile di cui quello degli hikikomori giapponesi è il più noto.

E e se invece fosse vero il contrario? Se il problema non stesse nei videogiochi ma nei videogiocatori, se cioè la fascinazione dei giochi elettronici fosse l’esito e non la causa di stili di vita violenti e incapacità di relazionarsi?

Questa una delle numerose domande che Giovanni Cucci s.j. ha posto venerdì scorso, 19 gennaio, nel corso della sua relazione “La sfida culturale dei videogiochi” tenuta su invito del Centro culturale Veritas e della sezione UCIIM di Trieste ad un pubblico folto e particolarmente attento.

[Il podcast dell’incontro a questo link]

C’è anche da chiedersi, ha continuato il relatore, come mai ragazzi svogliati e dispersivi nello studio o nel lavoro si rivelino poi, inaspettatamente, tanto determinati e capaci di impegnarsi a lungo e con costanza in giochi elettronici anche difficili che possono richiedere centinaia di ore e una preparazione culturale e abilità di buon livello. Ancora: non può sfuggire che il sacro, così spesso emarginato nella vita vissuta, riemerge poi frequentemente nei videogiochi dove solitamente la figura del monaco, del frate, del maestro spirituale è portatrice di saggezza e di sapienza di vita.

Il mondo dei videogiochi, evidentemente, è ben complesso e ci rimanda ad una riflessione sulla nostra società e sulla natura umana in generale.

Da cosa è stato sempre attirato l’uomo, fin dalla prima prova cui è stato sottoposto, nel giardino dell’Eden? Dal potere, dallo stabilire lui in prima persona il bene ed il male, dal desiderio di immortalità. Ebbene, nei videogiochi il premio finale è proprio quello: diventare God, ovvero poter decidere del destino proprio ed altrui ed infine impadronirsi del potere.

Nei giochi, così come nella vita, si aspira a superare le difficoltà e vincere cercando di emulare l’eroe. Quali poi siano i tratti di questo eroe, se adulto, maschio, violento oppure riflessivo, disarmato, altruista, questo sta alla società e a noi adulti proporlo.

Perché, come esistono diversi stili di vita, così esistono giochi e giochi. Quelli che inducono a sgominare gli avversari, ma anche quelli educativi, che pongono problemi quali l’equa distribuzione delle risorse o l’eliminazione della fame nel mondo, e invitano a mettere in atto strategie di collaborazione in vista del raggiungimento di una ragionevole giustizia sociale facendo nel contempo conoscere le mille complesse sfaccettature ed implicazioni del problema.

Quali spunti di riflessione, quindi, trarre dall’osservazione di questo complesso mondo del videogiochi?

Innanzi tutto che, in linea di massima, si tratta di prodotti molto attraenti: di ottima fattura sia dal punto di vista grafico che linguistico e che intercettano e stimolano le aspirazioni ed i desideri più profondi dell’uomo. Dovremmo prenderli a modello, almeno quanto a metodologia, per proporre contenuti valoriali. Dimostrano poi che i giovani, se interessati, sono capaci di sfoderare insospettabili risorse. A noi quindi il compito di invogliarli a farlo anche su altri fronti che quelli del gioco.

E ancora: dimostrano che il tempo speso nei videogiochi, tanto al punto da diventare talora addirittura attaccamento morboso e dipendenza patologica, più che causa di un disagio sono la sua manifestazione e forse anche una silenziosa richiesta di aiuto o tentativo di uscire, almeno virtualmente, da situazioni di vita problematiche.

Chi si sente sconfitto dalla vita, non all’altezza delle aspettative sue o della famiglia o ha bassa autostima facilmente cerca nel mondo virtuale una via alternativa per rimettersi letteralmente in gioco, trovare le gratificazioni che altrove non ottiene, recuperare fiducia in sé e finalmente, magari dopo ripetuti e cocciuti tentativi, riuscire anche lui vincente.

La cura, quindi, dalla dipendenza dai videogiochi non sta nel proibire il gioco, cioè il sintomo, ma ancora una volta nell’ascolto, nell’interessamento, nella condivisione e incoraggiamento ovvero nella ricerca e rimozione della causa di tale comportamento.

Più che mai però, ha voluto sottolineare Cucci in conclusione, si rende necessaria da parte nostra un’attenta educazione alla corporeità, affinché  i giovani non perdano di vista la differenza tra il virtuale  ed il reale: nel primo mondo solitamente si è immortali, si può sempre rimettersi in gioco, il tempo è illimitato, la sofferenza non è fisicamente percepita: mentre nel secondo le sofferenze sono tutte dolorosamente laceranti, esistono scelte irrevocabili e ferite insanabili, esiste la morte.

Indispensabile poi una educazione alle vecchie ma mai superate virtù cristiane, le sole che possano porre un argine al delirio di onnipotenza e alla sete di dominio che da sempre cerca, nella realtà vera e virtuale, di avvelenare l’uomo.

Marina Del Fabbro
(per gentile concessione del sito Uciim Trieste)