A conclusione della conferenza, riportiamo il testo della relazione “il compito educativo del padre”, che il padre gesuita Giovanni Cucci ha tenuto il 25 gennaio alle 18.30 presso il Centro Veritas.

CRISI E IMPORTANZA DEL PADRE

Non c’è dubbio che le società occidentali attraversino una crisi di credibilità, una crisi di crescita. Questa paura di crescere può essere resa da una storiella — che riporta il dialogo tra una madre e il proprio figlio — una storiella che ho ritrovato in testi di diversi paesi dell’Europa e proprio per questo mi sembra significativa: «“Su, Filippo, svegliati, sono le 7, la colazione è pronta, i vestiti puliti sono sulla sedia, ti ho spazzolato le scarpe e preparato la cartella: sbrigati, altrimenti arriverai in ritardo a scuola, come al solito”. “Mamma, non voglio più andare a scuola! Mi annoio da morire, le merendine del bar sono disgustose e tutti i bambini mi prendono in giro”. “Smettila di protestare e preparati per uscire. Hai tre buoni motivi per farlo. Primo, perché è tuo dovere; secondo, perché hai 50 anni e terzo perché sei il preside»[1].

Per quanto frutto di immaginazione, questo dialogo è tutt’altro che irreale e insieme all’umorismo finale fa trapelare una triste realtà, una realtà che risulta inedita nella storia delle società umane, anche in Occidente. In questa scenetta sono contenuti molti degli elementi di questo disagio.

La scomparsa del padre

Anzitutto la scomparsa del padre. In questo dialogo, non a caso, egli non solo non è presente, ma non viene mai menzionato. Il padre è il grande assente dalla scena educativa, familiare e culturale occidentale della seconda metà del secolo XX. Qualcuno ha notato che i padri delle nostre società sono partiti per la seconda guerra mondiale e non sono più tornati: in quella guerra, e nel periodo successivo, essi hanno trovato la morte fisica, ma soprattutto simbolica, la morte del significato del loro ruolo. Un padre che nella riflessione culturale (penso soprattutto alla psicologia dello sviluppo e all’antropologia culturale) è legato all’autorità e alla dimensione religiosa.

Per questo la sua scomparsa cade parallela alla scomparsa progressiva della dimensione religiosa e dell’autorità in genere dallo scenario culturale e immaginifico dell’Occidente.

Ma la scomparsa del padre intacca fortemente anche il ruolo della madre, come si vede dalla diade perversa che emerge da quella storiella. Il ruolo tradizionalmente tenuto dai genitori va sempre più scemando per dare origine a quella che Ron Taffel chiama «la seconda famiglia», dove tutti stanno sullo stesso piano di età, autorità, mentalità, tutti hanno i medesimi gusti, tutti si vestono e si comportano allo stesso modo, e dove regna “la tirannia del freddo”[2]: «Una società che non ha più genitori e figli ma dei fratelli e dei compagni diventa progressivamente perversa […]. La società fraterna non è possibile che nella misura in cui s’inscrive in una simbolica paterna. Senza padre non ci sono fratelli. La società dei compagni o degli amici assomiglia allo sradicamento della filiazione paterna che rifiuta il padre»[3].

Adulti e ragazzi diventano in questo modo succubi delle medesime fragilità affettive, delle medesime paure e insicurezze, dei medesimi problemi con l’alcool, la droga, l’aggressività, la sessualità.

Una diade perversa

La scenetta sopra ricordata mostra una relazione possessiva e a senso unico tra madre e figlio, che formano una diade perversa, conducendo alla crisi, oltre che del padre, della stessa maschilità. Il bambino rischia così di essere ben presto trattato come un mini-adulto, soprattutto se cresciuto da un genitore single: in questo caso sarà forte la tendenza a riversare su di lui attese e aspettative che egli dovrebbe invece rivolgere al proprio partner. Ciò dà origine a quelle perverse diadi in cui il figlio o la figlia sono chiamati a diventare rispettivamente «vicemarito» o «vicemoglie» del proprio genitore. In tal modo si impedisce loro di vivere la tappa infantile e di figliolanza della propria vita, due condizioni essenziali per la maturità psichica, cognitiva e affettiva. I figli si trovano così schiacciati dai bisogni dei genitori, alla stregua di un giocattolo chiamato a compensare le carenze degli adulti. Come confessava una ragazza sconsolata: «Mio padre non fa altro che correre dietro alle mie amiche e poi chiede di potersi confidare con me»[4].

La scomparsa della coppia padre-madre si accompagna a una soffocante attenzione nei confronti di un figlio sempre più «mammone», una situazione che sembra ancora più accentuata nel nostro Paese. Come in quella storiella, egli sa quello che non vuole («andare a scuola»), ma non sa quello che vuole, ha smarrito il desiderio profondo, quello per cui vale la pena rischiare e sacrificarsi. Questa è a mio parere la sconfitta educativa più grave, l’atrofia del desiderio, per lasciare il posto a una miriade di bisogni più o meno effimeri.

L’insegnamento della Bibbia

È significativo che la prima istruzione che Dio impartisce all’uomo nella Bibbia verta proprio su questo: se vuoi vivere, se vuoi gustare la vita, ricordati che sei creatura, che non sei Dio. Ciò è espresso dal divieto di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male (cf. Gen 2,16-17). Nel brano quell’albero simboleggia Dio stesso, e l’uomo deve guardarsi dalla brama di volerne prendere il posto, perché finirebbe per distruggersi.

In questo insegnamento si possono racchiudere le tre tappe fondamentali dello sviluppo umano: la nascita, lo svezzamento, la sconfitta edipica. Esse costituiscono tre differenti rinunce all’onnipotenza, tre «punti di non ritorno» propri della crescita (nei confronti della condizione prenatale, dell’allattamento, di un legame esclusivo con la madre), indispensabili per entrare nella realtà, per essere «vivi». Se fatte correttamente, queste tre rinunce consentono, nell’età adulta, di compiere scelte definitive; d’altro canto, la maggior parte delle difficoltà e del disagio di vivere è legata proprio a questi tre aspetti.

Alla radice di molte richieste di aiuto psicologico vi è spesso la non accettazione della propria verità di creatura, segnata dal limite e dalla fragilità: non si accetta se stessi, anzitutto il proprio corpo (come si può notare dai sempre più frequenti ricorsi alla chirurgia plastica e al lifting, con conseguenze anche gravi per la propria salute), non si accetta la propria famiglia di provenienza, la propria storia e personalità.

Compito fondamentale della madre e del padre, che sono anzitutto un simbolo potente del Padre celeste, è ripresentare ai propri figli questo insegnamento della Genesi, di prendere consapevolezza del proprio limite, condizione essenziale per diventare adulto e portare frutto nella propria vita. Essi possono fare questo perché hanno precedentemente elaborato la loro fragilità, la loro ferita originaria. Per essere più precisi, i primi due aspetti (nascita e svezzamento) vedono la madre come protagonista; il terzo, non riducibile unicamente alla sconfitta edipica, è proprio del padre e riprende la più complessa simbologia dei riti di iniziazione.

Il ruolo indispensabile del padre

La psicologia dello sviluppo riconosce che il ruolo del padre diventa sempre più importante a partire dai sette anni di vita del bambino, considerato come il tempo del suo ingresso nel mondo. Fino a quell’età la madre rimane il punto di riferimento predominante, anche se in realtà entrambi i genitori restano fondamentali per la differente specificità del loro intervento, per l’aiuto vicendevole che sono chiamati a darsi nelle diverse fasi della vita dei figli (cf. Cucci, 2009, 79-98).

Se si insiste in modo particolare sul padre nel corso di queste pagine non è certo per sminuire il ruolo e l’importanza della madre, ma perché il compito della figura educativa paterna è stato gravemente messo in discussione nel corso del secolo XX, fino a teorizzarne la scomparsa. Ciò che non è invece accaduto per la madre, la cui rilevanza non è mai stata contestata.

Per questo per il bambino/a è anzitutto fondamentale la relazione con quella figura specifica che è la madre: quando essa viene a mancare, si nota una incapacità strutturale a instaurare relazioni profonde con altri. Questa indispensabile attenzione allo sviluppo e alle necessità del bambino per lo psicologo Winnicott è la caratteristica di una «madre sufficientemente buona», in grado cioè di consentire al figlio/a di prendere familiarità con il principio di realtà. In questo contesto la «bontà della madre» si manifesta soprattutto come capacità di adattarsi ai bisogni del bambino, in particolare alla loro trasformazione e modificazione nel tempo, riconoscendo l’ingresso in una nuova tappa della vita (Winnicott, 1953, 94).

Si tratta di una figura ben diversa dalla madre soffocante e autoreferenziale incontrata nelle pagine precedenti. Un’affettuosa presenza rassicurante nei confronti del bambino, anche se non sempre materialmente presente, può essere paragonata alla luce e al calore del sole che permettono al fiore di aprirsi e di sbocciare; quando questo tipo di presenza è garantita, anche le situazioni di obiettivo pericolo e di tensione vengono affrontate dal piccolo con la calma serenità di chi si sente «in buone mani».

Per Freud la figura del padre risponde al bisogno essenziale del bambino/a di padroneggiare il pericolo e la paura. Questi mettono seriamente in discussione la sua «onnipotenza narcisistica», in altre parole l’illusione di credersi il centro del mondo, che tutto sia al suo servizio e di vivere una relazione paritaria con il proprio genitore. Ma è importante che tale pretesa venga frustrata per poter fare esperienza della realtà: «Il bimbo che entra nella relazione col padre, con l’uomo adulto, portatore della norma, sperimenta di non essere onnipotente, di essere vincolato a regole, a volte penose, che deve rispettare. Quest’accettazione, dolorosa, libera però dall’ansia» (Risé, 2003, 25).

La presenza del padre è legata a una sofferenza, che tuttavia comporta, come nella nascita, l’unica maniera di porsi in una relazione reale, di amare ed essere amato per quello che si è veramente: «Questo colpo, doloroso, rende più forte chi lo riceve: quando verrà la perdita, esperienza non evitabile nella vita umana, essa non lo distruggerà psicologicamente e spiritualmente. Anzi, egli saprà trarne il succo più prezioso: l’amore. Amore per sé, amore per gli altri: entrambi si temprano nell’esperienza della perdita» (ivi, 13).

Nelle tradizioni di ogni epoca e luogo il padre è sempre stato colui che ha avuto il compito fondamentale di operare questo distacco, questa ferita.

La psicologa Chana Ullmann riconosce in particolare tre funzioni, non esclusive, ma certamente specifiche, del padre, per un corretto sviluppo del bambino: esprimere la norma, proteggere, rendere possibile la sconfitta edipica[5].

1) Esprimere la norma

Ponendo il limite, il padre rafforza nel bambino il senso di una sana e realistica (sana perché realistica!) considerazione di sé: essa infatti si costruisce non evitando, ma affrontando insieme al padre limiti, ostacoli e difficoltà. In caso contrario il bambino cresce con un’insicurezza strutturale e, cedendo alla suggestione narcisista, cercherà nell’altro uno specchio di sé, qualcuno che si limiti a confermarlo nel suo valore, a colmare i suoi vuoti affettivi, e chiuda gli occhi su eventuali limiti e fragilità.

Introducendo il limite, si manda anche il messaggio, fondamentale in ambito educativo, che il bambino si trova di fronte a una differente tappa della vita, con cui è chiamato a confrontarsi. Ciò può comportare frustrazione, ansia, ma è anche lo stimolo fondamentale a crescere, a migliorarsi per raggiungere un ideale arduo ma desiderabile. Questo compito non facile aiuta tuttavia lo stesso adulto a esercitare il proprio compito, guardandosi da pericolose regressioni. Perciò i genitori devono porsi su di un piano diverso rispetto al bambino, e non alla pari con lui, aiutandolo a modificare il modo di relazionarsi. Senza limiti riconosciuti ed accettati, c’è il rischio di rifugiarsi in una fantasia onnipotente, dove tutto è ugualmente accessibile perché immaginato, «finto», e di sfuggire così alle situazioni reali.

Purtroppo per molti adulti il tema del limite, del «no», è rimasto un problema irrisolto, non integrato, su cui nutrono parecchi dubbi che riaffiorano nel momento in cui sono chiamati a svolgere un compito educativo. Da qui il rischio di dimissionare tale compito, trattando il bambino come un mini-adulto; oppure di esercitare un autoritarismo estremo, in cui la violenza arbitraria copre i dubbi e le profonde insicurezze.

Al fondo dell’incapacità del genitore a dire dei «no» si può trovare nella maggior parte dei casi una ferita antica: non aver potuto vivere la propria infanzia, non avere cioè conosciuto l’esperienza di appoggiarsi a qualcuno, riconoscendo la propria impotenza e fragilità, e insieme la protezione affettuosa dei genitori nei confronti dei pericoli della vita. Acquisire il senso della dipendenza — in altre parole, la sconfitta del narcisismo — aiuta a prendere contatto con la propria verità creaturale e a viverla in pienezza, imparando in questo modo anche ad essere comprensivi verso le fragilità e debolezze altrui: «Negare qualsiasi dipendenza porta a diventare autoritari, se non addirittura prepotenti. I prepotenti, solitamente, hanno paura di trovare qualcuno più forte di loro e di poter ricevere quello che loro stessi sono abituati a dispensare. In un mondo di magia, è un’eventualità ancora più spaventosa» (Asha Philips, 1999, 65).

Se il padre abbandona improvvisamente l’ambiente familiare, specie in quella fascia di età in cui il bambino tende a viversi come responsabile di ogni possibile accadimento, interno o esterno, ciò può avere pesanti ripercussioni su un sano senso della realtà, come la capacità di differenziare tra sé e l’altro da sé e soprattutto circa i limiti da porre alle sue fantasie potenzialmente infinite. Quest’ultimo elemento in particolare può diventare nocivo, portando a idealizzare il padre assente, a vivere la sua scomparsa come una punizione per le sue colpe, fino all’incapacità in età adulta di impegnarsi in scelte e relazioni stabili, a causa dell’angoscia di poter essere di nuovo abbandonato. In tal modo il padre tende a essere associato a una «onnipotenza negativa», legata alla crudeltà e alla vendetta.

Christopher Lasch, nel suo studio sulla mentalità propria del narcisismo, riporta a questo proposito un’interessante lettera scritta da un ragazzo di 11 anni a J. Henry, promotore di una ricerca sulla dinamica della vita familiare negli Stati Uniti, a proposito della tendenza del proprio padre ad evitargli qualsiasi tipo di punizione: «“Mi insegna a giocare [a baseball e] altri sport [e] mi dà tutto quello che può”, ma si rammaricava, “non mi ha mai dato una sberla quando me la meritavo”. Commento di Henry: “Quello che questo bambino sembra voler dire è che il padre non può dargli ciò di cui egli sente di aver bisogno per diventare una persona: il giusto castigo per le sue malefatte. Per delle persone che vivono in una cultura permissiva è sbalorditivo apprendere che una punizione mancata può essere vissuta come una deprivazione. Ma per alcuni bambini è più doloroso sopportare il senso di colpa impuniti che prendere un ceffone”»[6]. La giusta punizione per ciò che si è compiuto ha infatti una funzione catartica per il bambino, e non soltanto per lui: le tradizioni religiose riconoscevano come la penitenza e l’espiazione costituissero una modalità di ritorno alla vita, una maniera di rialzarsi dalla caduta, dal male e dalla colpa. In tale prospettiva la sanzione, come hanno riconosciuto coloro che si sono occupati di questa tematica, oltre all’affermazione della propria libertà e responsabilità di fronte al male compiuto, diventa anche un messaggio di speranza e di riconciliazione offerta: ciò significa infatti attestare che dal male è possibile uscire, che esso non costituisce né la prima né l’ultima parola dell’agire umano. La punizione sottolinea l’importanza di dare un nome a tutto questo e di riconoscerlo come proprio: in tal modo la colpa si apre ad una possibilità di riparazione e di pacificazione, al contrario della colpa negata.

[cfr Dostoevskij Delitto e castigo Raskolnokov non ha ucciso la vecchia ha ucciso se stesso, solo quando il commissario lo dichiara in arresto torna a vivere] Come osserva Ricœur nel suo accurato studio sulla fenomenologia della colpa e della riconciliazione: «La vera punizione è quella che rende felici, ristabilendo l’ordine; la vera punizione ha come risultato la felicità; è il senso del vero paradosso del Gorgia […]: “sfuggire al castigo è peggio che subirlo”»[7]. Stragi del sabato sera come punizioni inconsce (‘io volevo andare a sbattere’).

Quando il divieto e la punizione scompaiono dall’ambito educativo familiare, le conseguenze possono essere piuttosto spiacevoli anche in questo campo: oltre alla tristezza depressiva, infatti, l’aggressività non riconosciuta come tale tende a diventare ansia diffusa: «In questa società, il divieto che il bimbo aspetta non viene mai chiaramente, francamente, impartito: perché non c’è nessun padre che lo ponga. L’ansia del bimbo cresce così fino a raggiungere livelli molto pericolosi»[8].

La carenza di affetto empatico e dell’accettazione del limite è anche alla base della grave e crescente frattura tra scuola e famiglia: i genitori tendono a essere complici dei propri figli perché si sentono in colpa nei loro confronti. Vivono l’insufficienza scolastica come un fallimento personale, e così si alleano con i figli contro gli insegnanti: proteggendo loro vogliono difendere stessi. Ma non si rendono conto che in questo modo li danneggiano, perché l’insuccesso e il fallimento fanno parte della vita: l’adulto deve aiutarli ad affrontare tutto ciò, non fingere che non esistano. Si può imparare dai propri errori sono quando si è disposti a riconoscerli.

Per contrastare in maniera efficace il bullismo è necessario ritrovare il patto scuola/famiglia che si è sempre più sgretolato in queste ultime generazioni. In un libro uscito lo scorso anno sull’argomento, l’autore, padre di famiglia, individua nella paura della fragilità, anzitutto della fragilità del genitore, e nel tentativo di controllare tutto uno degli ostacoli più gravi per la crescita. In tal modo infatti si vuole impedire ai propri figli la possibilità di sbagliare, e soprattutto di prendere consapevolezza dei propri errori. Per questo una sbucciatura sulle ginocchia o una bocciatura a scuola possono essere una condizione indispensabile per crescere e fare esperienza di realtà: «Quando abbiamo cominciato a pensare alla scuola come all’erogazione di un servizio nel quale il cliente deve avere comunque ragione? […] Perché il sacrosanto diritto di partecipare al cammino dei nostri figli, vigilando anche sugli eccessi, si trasforma sempre più spesso nella giustificazione automatica dei figli stessi? Infine: quando ci siamo convinti che essere genitori volesse dire vivere le loro vite, che fare il loro bene significasse tenerli al riparo dalle difficoltà, dimenticando che le difficoltà sono uno strumento di crescita indispensabile?»[9].

I figli stessi chiedono questo: alcuni gesti distruttivi sono spesso una richiesta non consapevole di ricevere una norma. È interessante notare l’alto numero di richieste di iscrizioni a scuole impostate sul modello della vita militare: avere un orario preciso della giornata, regole chiare, un’autorità capace di farle rispettare, un gruppo di riferimento sono aspetti ricercati dai giovani come aiuto per una vita ordinata e regolare, per esprimere le loro capacità e contrastare l’ozio.

Asha Philips riconosce che l’incapacità di dire dei no al bambino porta a coltivare un piccolo tiranno incapace di far fronte alla realtà: «Dire no è un modo di comunicare che siete un essere distinto»[10].

Senza limiti, riconosciuti ed accettati c’è il rischio di rifugiarsi in una fantasia onnipotente, dove tutto è ugualmente accessibile perché immaginato, “finto”, sfuggendo così alle situazioni reali. Al fondo dell’incapacità del genitore a dire dei “no” si può trovare nella maggior parte dei casi una ferita antica: non aver potuto vivere la propria infanzia, non avere cioè conosciuto l’esperienza di appoggiarsi a qualcuno, riconoscendo la propria impotenza e fragilità, e insieme la protezione affettuosa dei genitori nei confronti dei pericoli della vita: «Negare qualsiasi dipendenza porta a diventare autoritari, se non addirittura prepotenti. I prepotenti, solitamente, hanno paura di trovare qualcuno più forte di loro e di poter ricevere quello che loro stessi sono abituati a dispensare. In un mondo di magia, è un’eventualità ancora più spaventosa»[11]. Da qui il preoccupante diffondersi di atteggiamenti come lo stalking e il bullismo.

L’essere umano si sviluppa superando degli ostacoli. Imparare a riconoscere i propri limiti e a rispettarli aiuterà anche a condividere la propria intimità con un altro essere, senza volerlo possedere perché «per essere autenticamente reciproco, un rapporto adulto deve essere formato da due persone distinte che scelgono di stare insieme […]. Per essere uniti dobbiamo lasciar andare. Solo allora potremo impegnarci in uno scambio autentico e alla pari»[12].

2) Proteggere

Il secondo fondamentale compito del padre è di proteggere il figlio/a nel suo ingresso nella realtà esterna e di infondere fiducia, in modo che possa affrontare e superare difficoltà confidando nelle proprie capacità. Tutto ciò è decisivo in vista di una sana ed equilibrata stima di sé. Se questo manca, sorge nel bambino/a la sensazione di trovarsi solo di fronte a un mondo ostile. La figura di un padre forte ma benevolo protegge soprattutto da due pericoli: associando autorità e bontà, egli può mostrare al bambino il significato presente nelle cose; in secondo luogo insegna a riconoscere e gestire la propria aggressività. È la funzione di contenimento (holding) fondamentale in questa tappa di vita, che il genitore è chiamato ad assicurare, presentandosi come un esempio di autorità ma anche di pazienza.

In un tempo, come il nostro, all’insegna del «tutto e subito», l’esempio di un genitore paziente mostra come le abilità fondamentali dell’esistenza richiedano invece tempo e gradualità, come le stagioni della vita. La fretta nasconde spesso la paura di non poter conseguire l’obiettivo sperato, e può giocare brutti scherzi, specie nell’età dello sviluppo, in cui il giovane può bruciarsi in esperienze distruttive, senza averle mai veramente volute. Apprendere il valore della pazienza consente inoltre di assumere altre attitudini essenziali come la riflessività, la ponderazione e il dominio di sé: esse aiutano a riconoscere ciò che sta a cuore in una determinata situazione (il proprio desiderio profondo) e a non essere manipolati dagli altri.

Il proliferare della paura nelle nostre società è dovuto anche al fatto che si è smarrito il senso dell’attesa e dunque della pazienza e della speranza; tutto ciò toglie forza e stabilità, aumentando possibili ansie, timori e paure. È forse anche per questo motivo che la paura, l’insicurezza, l’ansia sembrano essere maggiormente di casa nei paesi ricchi; i poveri, abituati da sempre ad attendere, a pazientare, a sopportare, hanno meno paure di fronte agli imprevisti della vita perché sono parte ordinaria della loro giornata.

Un padre assente, inefficace o rifiutante non consente al bambino di essere all’altezza di questi aspetti della socializzazione, spingendolo alla ricerca di strutture e protezioni. Mancando l’abitudine a superare le difficoltà, permane una sensazione di noia, di fragilità interiore e quando si presenta un ostacolo, un contrattempo, un fallimento, la situazione può con facilità degenerare, con esiti drammatici: a quel punto l’insuccesso diventa una sciagura così terribile da ritenere impossibile continuare a vivere. Spesso il suicidio giovanile nasce da motivazioni assolutamente sproporzionate, ma vissute come una sorta di globale catastrofe. Si tratta, a suo modo, di una logica conclusione: in effetti la morte diventa il luogo di cessazione totale di ogni tipo di pericolo, l’unico tipo di certezza assoluta, dove l’ansia e la paura non possono più trovare posto.

Nell’Odissea Ulisse può essere riconosciuto come padre solo quando, al termine del poema, il figlio lo vede imbracciare l’arco, con fare dimesso ma deciso: «Sembra che Omero abbia pensato ai nostri tempi e ci abbia avvertiti: il padre non scompare mai del tutto. Ma non crediate di ritrovarlo nei maschi rumorosi: quelli sono i Proci, gli eterni non-adulti. Se qualcuno invece è umile, paziente, potrebbe essere lui, sopravvissuto a guerre e tempeste»[13]. L’arco può simboleggiare il ruolo e il compito del padre, che non è delegabile; e difatti nessuno dei proci è in grado di maneggiarlo, perché non ne hanno l’autorità. Ma il padre di cui qui si parla non è affatto il padre-padrone che ha caratterizzato le nostre società degli ultimi due secoli, conducendo infine al suo rifiuto e allontanamento. Ulisse infatti, precisa Omero, maneggia l’arco come un musicista accarezza la sua arpa, associando con questo gesto le due caratteristiche essenziali del padre: la forza e la dolcezza. Solo quando è in grado di unire in sé queste due virtù, l’autorità e la tenerezza, Ulisse può nuovamente tendere il suo arco, e mettere fine alla «notte dei proci»[14].

3) La sconfitta edipica

Il terzo fondamentale compito del padre, legato alla sconfitta edipica, è mostrare al bambino un’altra modalità di figura genitoriale, e ciò è importante per la capacità di vivere le relazioni all’insegna del riconoscimento della diversità, distinguendo tra sé e l’altro, senza cercare di assorbire l’altro a sé come nelle dinamiche proprie dell’autismo o del narcisismo. Questo è uno dei significati insiti nei riti di passaggio. La sconfitta edipica era resa possibile nelle culture di tutti i tempi dai riti di passaggio, che consentono al ragazzo/a di spezzare la possibile diade perversa genitore-figlio e di entrare nel mondo della vita. I riti sono costituiti da gesti e cerimonie anche estremamente semplici (come l’investitura della toga per il ragazzo romano, un periodo trascorso fuori casa per alcune società africane come lo Zambia e il Sudafrica, il cerimoniale ebraico del Bar Mitzvah), compiuti al cospetto di una comunità e accompagnati da un adulto. Il messaggio fondamentale che questi gesti hanno trasmesso nel corso dei secoli è che si deve entrare in una nuova fase della vita, che presenta nuove caratteristiche, in maniera irreversibile.

Di queste iniziazioni non è rimasto quasi più nulla nelle odierne società occidentali, dove al massimo si riscontra il raggiungimento di alcuni traguardi della vita civile (il conseguimento della patente, della laurea, della possibilità di votare). Gli stessi sacramenti dell’iniziazione cristiana difficilmente vengono colti con questo significato, come attesta la sempre più diffusa disaffezione e abbandono della pratica religiosa (piuttosto che il loro consolidamento), una volta che vengono impartiti.

Ma i cerimoniali rimangono indispensabili per la vita, in modo particolare nella fase della crescita. Per questo essi non possono essere semplicemente aboliti o dimenticati da una cultura: essi riappaiono sotto forme inquietanti, diventando celebrazioni di morte. I riti infatti non possono essere cancellati dall’immaginario di una società, o della vita di un uomo, perché hanno ad oggetto l’aggressività, la sofferenza e la morte, in altre parole l’essere umano nella sua verità e fragilità, espresse concretamente dalla corporeità che consente di fare esperienza di realtà, di differenziarla da sogni e fantasie, perché introduce nella dimensione della temporalità con il suo carattere di irreversibilità (che cosa meglio del nostro corpo è in grado di esprimere concretamente la crescita e l’invecchiamento?).

Quando vengono disattesi, i riti di iniziazione non scompaiono, ma piuttosto impazziscono, dando origine alle derive del «branco», segno dello stadio primitivo dello sviluppo, incapace di gestire le molteplici dimensioni della corporeità. Le violenze delle baby gang, il bullismo maschile e femminile, gli stupri di gruppo, lo sballo del sabato sera, i comportamenti sessuali a rischio, l’assunzione di droga in gruppo, l’attrazione verso l’horror e il macabro, le pratiche dei piercing, delle trafitture, dei tatuaggi sono riti di iniziazione impazziti, sono richieste degenerate di prendere contatto con la dimensione della corporeità, della relazione, dell’aggressività, del pericolo, della morte, ma senza che vi sia più un adulto o una comunità in grado di accompagnarli.

Questi gesti non possono essere alternativi ai riti di passaggio, perché non vi è una autorità, una comunità in grado di accogliere e ratificare queste richieste. La mancata attenzione ai riti di iniziazione ha tra le sue conseguenze anche l’impoverimento dell’immaginazione e della capacità di affrontare in modo creativo e stimolante le difficoltà della vita. Il rito poteva accoglierli perché li poneva in relazione a Dio e alla sacralità della vita; questo era il significato del gesto compiuto dal padre di strappare il bambino dalle braccia della madre (che fino a quell’età era il punto di riferimento peculiare) per elevarlo al cielo, un gesto con cui egli riceve la conferma della propria identità: «Il significato di questo gesto è chiaro: si consacrano i neofiti al Dio celeste»[15].

La vita umana inizia con una stretta relazione con la madre, da cui il bambino è chiamato a separarsi; e per il maschio si tratta di una doppia differenziazione, dalla persona e dall’identità di genere. Per questo egli è molto più esposto della femmina alla maggioranza delle perversioni. Il padre offre in tale sviluppo una presenza insieme significativa e differente, favorendo il processo di separazione da un sicuro ma restrittivo legame con la madre. Avendo infatti una relazione con il bambino meno frequente ma più varia, può favorire la consapevolezza di un corpo separato e insieme di un sé differenziato.

Il padre rimane in questo senso una figura cruciale nello sviluppo dell’identità di genere sia per il ragazzo sia per la ragazza, ma la sua presenza è di particolare importanza per il ragazzo, che ha bisogno di «disidentificarsi dalla madre» (Greenson, 1968), imparando a viverne l’assenza in modo non angosciante.

Il padre, figura decisiva nella vita di fede

Freud riconduce l’elemento psichico della religione (che per lui è l’elemento religioso tout court) alla relazione col padre, in quanto tentativo di compensare la paura di trovarsi soli di fronte ad un mondo ostile e freddo e insieme come forma di protezione nei confronti della morte. Per questo secondo Freud il sentimento religioso emerge in questa fase critica della vita del bambino, in quanto risponde al bisogno di padroneggiare il pericolo[16]. Questa intuizione di Freud circa l’importanza del ruolo del paterno in ordine allo sviluppo del senso religioso, nel bene come nel male, per quanto legata alla sua personale esperienza, è stato ampiamente confermato dalla successiva ricerca psicologica.

Un’indagine compiuta su un campione di giovani che si erano riavvicinati alla vita di fede e alla pratica religiosa, mostrava come l’80% dei convertiti avevano avuto una relazione molto difficile con il proprio padre (contro il 23% dei non convertiti), da essi descritto come aggressivo e violento (questo elemento costituisce il dato più alto dell’indice di negatività nella relazione), assente, passivo, inaffidabile o urtante. Un terzo del campione studiato non aveva mai conosciuto il proprio padre biologico dall’età di 4-5 anni, una percentuale tre volte più alta della media USA del 1970 (9%)[17]. Solo il 18% dei convertiti parlava in termini positivi della propria relazione con il padre (contro il 47% dei non convertiti). Il problema con il padre si presenta con la medesima frequenza negli uomini come nelle donne, mentre non si mostravano differenze significative circa la relazione con la madre. L’influenza affettiva, negativa, tribolata o assente, del padre emerge con insistenza nei racconti[18]. Altre ricerche compiute su casi di conversione religiosa riportano risultati simili. Deutsch, intervistando 14 convertiti, nota come la gran parte di essi descrivano il proprio padre in modo ostile e critico, nel contesto di un matrimonio infelice[19]; in altri casi il padre era del tutto assente.

La situazione si pone sostanzialmente negli stessi termini anche per le femmine, che sembrerebbero vivere diversamente il complesso di Edipo. Eppure anche per esse la conversione trova i medesimi riscontri, una forte connessione tra religiosità e relazione con il padre: molte esperienze di conversione religiosa presentano una sorta di attaccamento e innamoramento con una figura di padre assoluta e forte, capace di proteggere e di rassicurare[20].

Anche la frequenza religiosa della famiglia gioca infine un ruolo importante e durevole nel tempo nei confronti dei figli. Alcune ricerche mostrano il legame tra la frequenza religiosa dei genitori e le aspettative di tipo morale e l’atteggiamento verso la scuola da parte dei figli, soprattutto nel periodo dell’adolescenza. Uno studio in proposito evidenzia che il 61% degli adulti statunitensi che frequentava la chiesa da bambini continua tuttora a frequentarla, mentre il 45% dei bambini non praticanti continua a disertarla nell’età adulta[21]. Altri dati interessanti emergono a proposito della relazione tra istruzione religiosa e pratica conseguente. Coloro che fin da bambini frequentano la chiesa, se partecipano anche a gruppi di lettura biblica, tendono a mantenere nel tempo questa pratica in proporzione doppia di coloro che si limitavano solo a frequentarla. A loro volta, coloro che si prestano anche al servizio liturgico hanno una frequenza quasi del 50% superiore a coloro che frequentano i gruppi biblici; infine, coloro che partecipano a gruppi di preghiera settimanali mantengono una frequenza religiosa quasi doppia di chi presta servizio liturgico.

Questi dati sono molto vicini ad un’analoga ricerca compiuta in Svizzera circa il possibile legame tra paternità ed educazione religiosa: «Secondo i dati estratti dai censimenti del governo svizzero sulla popolazione della Confederazione, il fattore decisivo nel determinare il passaggio della religione alla generazione successiva è la pratica religiosa del padre di famiglia. Da essa dipende, in modo pressoché totale, se i suoi figli frequenteranno o meno la chiesa. Se il padre non va in chiesa, solo un bambino su cinquanta frequenterà la chiesa da adulto, indipendentemente da quanto ci va la madre. Se il padre la frequenta regolarmente, da due terzi a tre quarti dei loro figli andranno regolarmente in chiesa, indipendentemente da quanto lo fa la madre»[22].

Queste osservazioni evidenziano così l’importanza fondamentale della famiglia anche in ordine alla rappresentazione di Dio; tale importanza, già notata con chiarezza da Freud pur con criteri di lettura differenti, viene ribadita a livello psicologico dagli autori più insospettati, di diversa estrazione ed indirizzo di ricerca: «Winnicott, interpellato sul tema dell’evangelizzazione in famiglia, rispose quasi esclusivamente parlando dell’importanza decisiva delle modalità con cui il bambino appena nato viene tenuto in braccio e viene guardato dalla sua mamma. È questione di una sorta di imprinting originario, che non verrebbe comunicato attraverso parole o pensieri ma semplicemente attraverso il modo con cui una madre tiene in braccio il proprio bambino, al maniera in cui lo guarda, gli sorride e lo accarezza. Come a dire che una equilibrata umanità e una religiosità sana non si coltivano anzitutto attraverso chissà quali insegnamenti catechistici, ma attraverso relazioni affettivamente intense e sincere»[23].

Non si può non ricordare infine quanto nella stessa Bibbia il padre risulti importante per la vita di fede del bambino. Si pensi ad esempio alla situazione della famiglia di Gesù; in fondo, si potrebbe obiettare, se Maria ha concepito verginalmente, uno sposo e un padre non risultavano forse inutili? Il motivo della necessità di un padre, anche se putativo, non può essere individuato solo dalla consuetudine del tempo o dalla garanzia di una tranquillità esteriore, elementi d’altronde ben poco presenti in questa famiglia. Il motivo è di altro tipo, e viene sottolineato con chiarezza dall’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, Redemptoris custos, dedicata appunto alla figura di s. Giuseppe. Il papa vede in Giuseppe quel compito da sempre affidato al padre di introdurre il bambino nella realtà del mondo: «Nei Vangeli è presentato chiaramente il compito paterno di Giuseppe verso Gesù. Difatti, la salvezza, che passa attraverso l’umanità di Gesù, si realizza nei gesti che rientrano nella quotidianità della vita familiare, rispettando quella “condiscendenza” inerente all’economia dell’Incarnazione. Gli evangelisti sono molto attenti a mostrare come nella vita di Gesù nulla sia stato lasciato al caso, ma tutto si sia svolto secondo un piano divinamente prestabilito […]. Maria è l’umile serva del Signore, preparata dall’eternità al compito di essere madre di Dio; Giuseppe è colui che Dio ha scelto per essere “l’ordinatore della nascita del Signore”, colui che ha l’incarico di provvedere all’inserimento «ordinato” del Figlio di Dio nel mondo, nel rispetto delle disposizioni divine e delle leggi umane. Tutta la vita cosiddetta “privata” o “nascosta” di Gesù è affidata alla sua custodia»[24].

Si ritrova in questo testo l’intuizione centrale che ha attraversato le riflessioni fin qui svolte a proposito del ruolo del padre all’interno della famiglia: Giuseppe esercita la sua vocazione di padre, di «assicurare la protezione paterna a Gesù» (n. 7), di «inserire il Figlio nel mondo», di custodirlo perché possa crescere, apprendere un lavoro e diventare uomo: «La crescita di Gesù “in sapienza, in età e in grazia” (Lc 2,52) avvenne nell’ambito della santa Famiglia sotto gli occhi di Giuseppe, che aveva l’alto compito di “allevare”, ossia di nutrire, di vestire e di istruire Gesù nella legge e in un mestiere, in conformità ai doveri assegnati al padre»[25].

E, in quanto padre, è chiamato da Dio a proteggere il figlio dai pericoli. È infatti a lui che l’angelo in sogno comanda di portare il bambino lontano da Erode (cfr Mt 2,13).

L’apporto indispensabile della coppia genitoriale

Molti di questi compiti non sono certamente esclusivi del padre: anche molte madri li esercitano, poiché nella vita quotidiana varie funzioni possono essere svolte da entrambi i genitori. È tuttavia difficile svolgere in maniera efficace il compito di madre e padre nello stesso tempo; l’importanza della coppia si mostra anzitutto in questo aiuto dato all’altro/a a vivere la propria identità di coniuge in modo integrato, così da poter essere un buon genitore e guardarsi dal rischio, tutt’altro che infrequente, della confusione dei ruoli. Da questo punto di vista l’importanza del padre emerge ovviamente ben prima del settimo anno della vita del figlio: «Una madre può diventare tutt’uno con il figlio e a volte si sente confusa e sopraffatta quanto lui dalle emozioni. In questi momenti il padre ha un compito essenziale, che è quello di aiutare la compagna a rimanere se stessa, senza lasciarsi travolgere dalle sensazioni infantili. La può proteggere inserendosi fra lei e il bambino da cui non riesce a staccarsi, dandole il tempo di riprendersi, di riposare e di ritrovare un po’ di spazio per sé» (Philips, 1999, 47-48).

Mancando il padre, c’è il rischio che la madre investa in maniera spropositata nella relazione con i figli, soffocandoli e perdendo le distanze, chiedendo loro, come nella storiella iniziale, di riempire l’affetto che non può ricevere da un uomo. La mamma tende così a diventare ansiosa e protettiva verso i bambini, soprattutto maschi, non consentendo loro di staccarsi dal nido familiare e di iniziare a loro volta una vita autonoma. Quanto più la relazione marito-moglie è sana e affettuosa, tanto più è possibile svolgere bene il compito di padre/madre, mantenendo una distanza ottimale.

Il ruolo insostituibile del padre può essere svolto pure da una figura vicaria (cfr Ambrogio con Agostino); anche se la madre ha allevato da sola il figlio, per i motivi più diversi, una figura maschile rimane importante per ambedue, per poter vivere una relazione all’insegna della non possessività, riconoscendo il bene di cui l’altro ha bisogno: «Molti bambini vengono allevati da una madre single: sono convinta che anche in tale contesto ci sia un grande bisogno di una terza persona, un adulto, in modo che la coppia madre-figlio non formi un legame troppo stretto, che rischi di ostacolare lo sviluppo» (Philips, 1999, 48).

Il punto di arrivo: la generatività

L’uomo e la donna divengono veramente adulti quando generano, dando vita a un essere distinto da loro, che li continua nel tempo. Generare richiede di «lasciar andare» l’altro, non trattenerlo presso di sé, in modo che possa prendere vita e acquisire la propria identità. Questo lasciare è anche lo scopo del compito educativo: rendere capace il figlio di autonomia e responsabilità.

La crisi della generatività non emerge soltanto dal drastico calo delle nascite; la si ritrova in quasi ogni campo dell’attività umana. Si pensi alla vita politica e sociale: sempre più di rado un uomo di governo, un leader, il fondatore di un movimento o di un’opera pubblica, per quanto brillante e dotato, si mostra capace di preparare qualcuno in grado di continuare la sua opera. È invece triste constatare come, sempre più spesso, persone molto avanti negli anni si comportino da bambini egoisti, incapaci di «lasciare spazio» perché altri possano subentrare. Essi si attaccano con morbosità al proprio incarico, al posto di comando, senza rendersi conto che è giunto il momento di «passare il testimone». Anche questa è una sconfitta educativa, forse la più grave, nei confronti delle giovani generazioni.

Essere educatori come persone capaci di generare è difficile ma affascinante, è ciò che rende alla fine la vita degna di essere vissuta. È la grazia che il genitore, autore di questa preghiera, chiede al Signore, di poter rispondere degnamente al compito che gli è stato affidato, così da realizzare con il proprio figlio una relazione autentica, basata su di un amore che non è possessivo, consentendogli di occupare il suo posto nella vita:

«Io prego di riuscire a permettere a mio figlio di vivere la sua vita/e non quella che io vorrei aver vissuto./Perciò fa che non metta sulle sue spalle il fardello di ciò che non sono riuscito a fare./Aiutami a vedere oggi i suoi errori/in prospettiva della lunga strada che deve percorrere,/e concedimi la grazia di avere pazienza quando il suo passo è lento./Donami la saggezza di sapere quando sorridere delle monellerie della sua età/e quando mostrare fermezza contro gli impulsi/che egli teme e non può dominare./Aiutami a percepire l’angoscia nel suo cuore in mezzo al frastuono delle parole piene di rabbia,/o nel gorgo del suo cupo silenzio; e, dopo averla percepita,/dammi la capacità di riempire l’abisso che c’è tra noi con la comprensione./Prego di poter alzare la mia voce più per la gioia di ciò che egli è/che per il dispiacere di ciò che non è,/cosicché ogni giorno egli possa crescere nella fiducia in se stesso./Aiutami a guardare a lui con affetto autentico,/in modo che lui possa fare lo stesso nei confronti degli altri./E poi dammi la forza, o Signore, di lasciarlo libero/affinché possa andare con decisione per la sua strada»[26].

 

[PS: La presente relazione è tratta dai seguenti scritti: G. Cucci, La crisi dell’adulto. La sindrome di Peter Pan, Assisi, Cittadella, 2012; Id., Abitare lo spazio della fragilità. Oltre la cultura dell’homo infirmus, Milano, Ancora-La Civiltà Cattolica, 2014. A essi si rimanda per un approfondimento della tematica]

[1] Th. Radcliffe,, Perché andare in chiesa? Il dramma dell’eucaristia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, 9.

[2] R. Taffel, The Second Family. How Adolescent Power Is Challenging The American Family, New York, St. Martin’s Griffin,, 16-25.

[3] A. Anatrella, A., Interminables adolescences. Les 12/30 ans, Paris, Cerf-Cujas, 1988, 197.

[4] Cit. in M. Recalcati,«Dove sono finiti gli adulti?», in la Repubblica, 19 febbraio 2012.

[5] Cfr Ch. Ullman, The Transformed Self. The psychology of Religious Conversion, New York-London, Pelnum Press, 1989, 50-56; . G. Cucci, Esperienza religiosa e psicologia, cit., 79-98.

[6] C. Lasch, La cultura del narcisismo, p. 202n.

[7] P. Ricœur, Finitudine e colpa. II. La simbolica del male, Bologna, Il Mulino 1970, p. 292.

[8] C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, p. 26; cfr. anche C. Lasch, La cultura del narcisismo, pp. 194-202.242-261.

[9] M. Bussola, «Così ci illudiamo di proteggere i nostri ragazzi», Repubblica 2 ottobre 2017; cfr Id. Sono puri i loro sogni. Lettera a noi genitori sulla scuola, Torino, Einaudi, 2017.

[10] A. Philips, I no che aiutano a crescere, p. 21.

[11] A. Philips, I no che aiutano a crescere, p. 65.

[12] A. Philips, I no che aiutano a crescere, p. 184.

[13] L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità, scomparsa del padre, Torino, Boringhieri, 2000, 113-114; cfr Odissea, XVI, 148-149.

[14] L. Zoja, Il gesto di Ettore…, cit., 305; cfr Odissea, XXI, 404-410.

[15] M. Eliade, M., La nascita mistica. Riti e simboli d’iniziazione, Brescia, Morcelliana, 1974, 24.

[16] S. Freud, L’avvenire di un’illusione, in Id., Opere, Torino, Boringhieri, 1978, vol. X, 454.

[17] Cfr D.B. Lynn, The Father; His Role in Child Development, Monterey, Brooks/Cole 1974.

[18] Cfr Ch. Ullman, The Transformed Self. The psychology of Religious Conversion, New York-London, Pelnum Pres, 1989, 45.

[19] A. Deutsch, «Observations on a sidewalk ahsram», in Archives of General Psychiatry 32 (1975) 166-175.

[20] Cfr Ch. Ullman, The Transformed Self, cit., 49.

[21] G. Barna, «Adults Who Attended Church As Children Show Lifelong Effects», in www.barna.org.

[22] C. Risé, Il padre, cit., 34-35. Questi dati si possono trovare nelle seguenti documentazioni: W. Haug, P. Warner, «The demographic characteristics of linguistic and religious groups in Switzerland» in W. Haug, et al, Population Studies No. 31 (vol. 2): The Demographic Characteristics of National Minorities in Certain European States, Strasbourg, Council of Europe Directorate General III, Social Cohesion, 2000. Dati molto simili emergono da R. Low: «Se entrambi i genitori frequentano regolarmente, il 33% dei figli manterrà la medesima regolarità, e il 41% frequenterà in modo saltuario. Solo un quarto dei figli abbandonerà del tutto la pratica religiosa. Se il padre ha una frequenza irregolare e la madre costante, solo il 3% dei figli sarà costante, e per il 59% sarà anch’esso irregolare. Il 38% abbandonerà. Se il padre non è praticante e la madre frequenta regolarmente, solo il 2% dei figli frequenterà in modo regolare il precetto festivo, il 37% frequenterà in modo irregolare, mentre più del 60% abbandonerà del tutto la pratica religiosa» (R. Low, «The Truth About Men & Church», Touchstone, June 2003).

[23] M. Diana, Ciclo di vita ed esperienza religiosa. Aspetti psicologici e psicodinamici, Bologna, EDB, 2004, 43-44.

[24] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Redemptoris custos, 15 agosto 1989, n. 8. Cfr Origene, Om. XIII in Lucam, n. 7.

[25] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Redemptoris custos, n. 16. Cfr C. Risé, Il padre, cit., 41-43.

[26] Cit. in P. Andrews, «Le tappe e le insidie del crescere. Gli adolescenti in Irlanda», in La Civiltà Cattolica 1993 II 578.