Floriana Bulfon, friulana di Peonis (Ud), giornalista d’inchiesta, ha vinto il Premio Luchetta reportage 2016 insieme alla collega Cristina Mastrandrea per un videoreportage pubblicato da l’Espresso e prodotto da Unicef Italia sui minori stranieri abbandonati a se stessi e sfruttati nella zona della stazione Termini, a Roma.

La giornalista Floriana Bulfon

Free lance, scrive, tra gli altri, per il settimanale l’Espresso, è inviata della trasmissione di RaiUno “Petrolio” e collabora con “I dieci comandamenti” su RaiTre.

In attesa di incontrarla mercoledì 11 ottobre al Centro Culturale Veritas per la conferenza “Invisibili, storie di bambini e minori non accompagnati in fuga: il buon giornalismo nei confronti dei minori e degli stranieri”, le abbiamo rivolto qualche domanda.

Quali saranno i temi che affronterà nell’incontro di mercoledì 11 ottobre a Trieste?
Partiremo dal video “Invisibili. Non è un viaggio, è una fuga – Storie di ragazzi che arrivano soli in Italia”, documento-inchiesta sui minori non accompagnati. Si tratta di oltre 25mila minorenni giunti nel nostro Paese solo nel 2016. Di questi, circa 7000 sono “irreperibili”: dove finiscono? L’inchiesta cerca di dare delle risposte.

Da dove vengono e dove vanno gli “invisibili”?
Vengono da tutte le rotte dell’immigrazione. Giunti qui li troviamo ovunque, dalla Sicilia fino a Como. Molti tentano di ricongiungersi con dei “parenti” – in senso esteso – che sono già in Europa. Viaggiano da soli anche per anni prima di raggiungere il Paese di destinazione.

Poi ci sono i dispersi. Cosa avete scoperto?
Anzitutto c’è il fatto, gravissimo, che nessuno li nota, anche in città come Roma o Milano. Vivono per strada, nelle stazioni, nel totale degrado. Spesso non mangiano per più giorni. Finiscono nelle reti della criminalità, che li sfrutta per lo spaccio, per furti, per scippi. Diventano vittime di pedofili, si prostituiscono per fame. Nel corso dell’inchiesta abbiamo anche individuato un pedofilo, attraverso le indicazioni di un minore. Per colpa di un vuoto legislativo – che abbiamo denunciato – questa persona è stata rimessa in libertà. A seguito dell’inchiesta è stata promossa una proposta di legge per colmare la carenza normativa.

Come è possibile che questo accada? Come fanno i ragazzini a “perdersi”?
Molti scappano dai centri di accoglienza, altri vivono negli stessi centri ma ci vanno solo per dormire, rientrando magari a notte fonda. Questa è una grave carenza di alcune strutture – non tutte, per fortuna – che considerano i minori non accompagnati come fonte di introiti.

Il ruolo della criminalità è molto forte: ad esempio per la tratta delle ragazze nigeriane ci sono accordi tra mafie italiane e quelle del Paese di provenienza. Le giovani in qualche caso sono prelevate dal racket della prostituzione addirittura dagli stessi centri di accoglienza.

Esiste una responsabilità delle cooperative?
Sarebbe scorretto fare di tutt’erba un fascio. Ci sono delle strutture che funzionano molto bene, si prendono cura dei minori con un progetto educativo mirato. Accanto a queste ce ne sono altre che sono colluse con un sistema di corruttele e non guardano minimamente all’integrazione dei ragazzi.

Qual è la discriminante?
È difficile esprimere un giudizio. Una cosa però si può dire: maggiore è il numero di minori accolti in uno stesso centro, più alto è il rischio che l’accoglienza funzioni male. Numeri elevati vogliono dire tanti soldi che girano, collusione con settori e individui corrotti delle pubbliche amministrazioni, infiltrazioni della malavita nei casi peggiori.

Quindi l’accoglienza diffusa, di cui spesso si parla nella nostra Regione, a suo avviso è un sistema valido?
Senza generalizzare, si può dire che l’accoglienza diffusa permette un controllo più puntuale, sia organizzativo che finanziario. Le strutture piccole inoltre creano un ambiente di tipo familiare dove è più agevole seguire il progetto educativo del minore straniero e favorire la sua integrazione nel territorio.

Passando al suo lavoro di giornalista d’inchiesta: quali sono gli ostacoli che trova?
Le querele temerarie sono uno strumento estremamente utilizzato per tacitare inchieste scomode. Vengono chiesti nell’immediato risarcimenti civili enormi. Poi si va a processo e magari viene anche data ragione al giornalista, ma nel frattempo ci sono le spese legali da pagare e il tempo che dev’essere dedicato. Se dietro all’inchiesta c’è un editore può andare bene, anche se dopo una serie di querele la testata non ce la fa. Nel mondo dei free lance è ancora più insostenibile. Questo blocca il giornalismo d’inchiesta nel nostro Paese.

Di fatto una limitazione alla libertà di informazione. Quali possono essere le risposte?
Non abbiamo un sistema forte come negli Stati Uniti da parte della società civile. In Italia ci sono pochi network e pochissimo crowdfunding. Anche tra colleghi il lavoro dovrebbe essere più corale, insieme avremmo più capacità di farci sentire e saremmo più protetti.

A questo proposito, come valuta la recente “Carta di Pordenone”, il Protocollo d’intesa tra istituzioni e società civile per promuovere una rappresentazione rispettosa della dignità della persona nell’ambito dell’informazione e della comunicazione?
La Carta di Pordenone, come le altre Carte deontologiche, quella di Roma, quella di Treviso, solo per citarne alcune, vanno nella giusta direzione e servono per sensibilizzare i colleghi ed i lettori.

Sono strumenti necessari, ma troppo spesso disattesi. La dignità delle persone viene lesa continuamente, vuoi per fretta e distrazione, vuoi per farne strumentalizzazione politica, vuoi per alzare i toni.

Quando tali regole deontologiche sono disattese, il danno non è limitato alla singola persona lesa. L’effetto domino è quello di far passare il messaggio che calpestare il diritto alla dignità “si può fare”. Innescando un processo di degenerazione nel nostro tessuto sociale.

Il videoreportage “Invisibili” è un progetto di Floriana Bulfon e Cristina Mastrandrea per Unicef Italia. Regia, riprese e montaggio: Toni Trupia e Mario Poeta. Di seguito il trailer: